Il Filo Rosso

Il filo rosso della ricerca non si è interrotto. Attraverso colore e materia Gai Candido continua a dialogare con l’Africa interpretandone la tragedia.

Tra le sue ultime personali:  Mamma Africa ( Palermo –2008),  A come Africa B come Brasile( Palermo – 2012). La risultanza del suo lavoro, di cui l’Africa continua ad essere tema della sua ricerca di artista, è questo nuovo racconto che lega i contenuti delle due sue ultime esperienze dello spirito.

Tutto è nato da un viaggio e da un lungo soggiorno nel continente nero (Costa d’Avorio – Gana) e dal suo confrontarsi con un mondo a noi lontano per collocazione geografica ma al contempo vicino per quotidiani accadimenti. L’artista si narra e ci narra di un continente entrato in sintonia con la sua curiosità di intellettuale e la sua sensibile volontà di comprensione. Tutto è reso con un disegno essenziale e con la nettezza dei colori di base.

I discendenti di Lucy ci parlano attraverso la purezza delle loro forme e le campiture dei vivi colori della loro terra, senza passaggi sfumati, metafore di una umanità di primordiale innocenza. La narrazione, attraverso la compiutezza del gesto dell’artista, fluisce fino a tendere un infinito filo invisibile che travalica un tempo di secoli e migliaia di miglia percorse sulle rotte dello sfruttamento di antiche e nuove schiavitù. Nel remoto ieri esso si interrompeva all’approdo verso le piantagioni dell’ignoto Brasile dove la forzata emigrazione giungeva con la sola eredità del colore della pelle e la sola memoria dei canti degli avi.

Oggi è la fuga da fame e da guerre a nutrire il sogno di false ricchezze fino ad azzardare le insidie del Sahara e i tradimenti delle acque del Mediterraneo. Lungo queste vie della speranza è più quanto è stto perduto che quel che è stato acquistato.

L’artista ha colto l’essenza di questo grumo di umanità, osservando e traducendo tutto con il suo linguaggio di forme senza contorno e l’uso del colore in audaci accostamenti, come la luce dell’Africa gli ha insegnato e fatto amare.

I figli dell’Africa allontanati con le più antiche tratte in schiavitù dalla terra madre e strappati alle loro religioni, hanno custodito, nella foresta amazzonica, il pallido ricordo delle patrie tradizioni. La presenza di questi antichi retaggi non è sfuggita all’attenzione dell’artista che, rimuovendo il sostrato delle successive conversioni al cristianesimo, con cui sono sopravvissuti, ne ha saputo riportare alla luce l’essenza.

L’uso del colore assoluto, per nulla indulgente alle tinte intermedie né alle sfumature, ci parla della odierna tragedia dell’Africa, continente traboccante di oro, di diamanti, di petrolio, di uranio – tesori depredati – che assiste alla morte per fame e per le malattie dei suoi figli e che vede scorrere fiumi di sangue per guerre tribali.

L’impoverimento culturale è la sottile trama su cui vengono tessute le opere di Gai Candido. L’artista è entrato in questo mondo cogliendone le mutazioni e rappresentandole sulle sue tele con sottile e sottintesa indignazione. Ne ha intuito quanto il contatto con l’occidente abbia introdotto, attraverso la religione del Cristo, sostituendo con riti estranei e di altre radici culturali le religioni avite, cancellandone i primordiali legami con la natura e la loro stessa corporeità. Sostituiti i riti animistici e le credenze dell’originaria cultura nelle forme di più palese contrasto con il Cristianesimo, ne sono sopravvissuti, in un processo sincretico, i linguaggi dell’estrinsecazione si cui sarebbe stato dirompente operare cancellazioni.

La coscienza della negritudine rimane nella rappresentazione, una traduzione in linguaggio figurativo della propria atavica cultura di angeli e santi.

L’artista ha esplorato l’interno di questa “Chiesa africana” e ne ha dipinto l’ingenua ed al tempo stesso più sentita nuova iconografia. L’evangelista S. Giovanni, per il mondo occidentale rappresentato con l’attributo dell’aquila, nella religiosità africana è tradotto con una più familiare gallina. Il Nazareno, morto in croce per chi ha fame e sete di giustizia, nell’universalità del suo messaggio, è dipinto con la pelle nera e la beatitudine del Paradiso è popolata da angeli negri. L’artista che la reinterpreta propone questa iconografia della giovane chiesa d’Africa. Quando la preghiera sgorga più facile per un’Africa nera che, non bisogni ma necessità ne ha tante, allora il Dio dacci una mano, di mani ne trova tante perché ai suoi figli delle savane, delle foreste e delle sterminate e violente periferie cittadine urgono aiuti non avendo più neanche la voce per chiederli. E, se il Dio dalle tante mani, non potendo intervenire nel tempo dell’attimo per il tanto da fare, allora scende a compromessi e chiede collaborazione agli spiriti guardiani lasciatigli in eredità dalla religione animistica degli antichi padri, Politeismo, Cristianesimo, religioni dell’antica Africa si incontrano e, nel recupero dei valori comuni, si fondono. I quattro elementi in cui ogni religione ha visto l’origine del mondo, divengono, nel cuore di Gesù, il fuoco – amore -, il coccodrillo, animale sacro agli egizi, è simbolo dell’acqua che per l’Africa – e non solo – è la vita.

La terra, ora arida ora ricoperta di praterie, non può essere rappresentata che da una pecora, quadrupede uso ad obbedire e ad intrupparsi di estrema frugalità, capace di nutrirsi con rovi e sterpi.

Prima di divenire racconto condotto sulla tela attraverso pennelli e spatole mossi a spandere il colore, ogni terra è stata impressione, sensazione, pensiero, dialogo. È stato un lungo lavoro di elaborazione che Gai Candido ha compiuto vagabondando, come un viaggiatore d’altri tempi, per sconosciuti villaggi. La sua mente ed i suoi occhi sono stati adoperati come fossero una macchina fotografica: ha saputo tutto registrare, con il suo incede e agire flemmatico che può apparire distratto ed estraniato a quanto vede e gli accade intorno.

Ma sono le sue opere che parlano, anzi, graffiano e, senza parere, ci colpiscono con dei grandi pugni sullo stomaco. Sotto la sua paciosa si cela, a chi vuole coglierlo, un severo rimprovero per tutto il male che la nostra arroganza di “mondo civile” fa ai figli di Lucy, i discendenti dei primi uomini apparsi sulla Terra.

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